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Il tentativo di conciliazione

Aspetti sostanziali e processuali in comparazione tra il diritto civile e quello canonico
(l’art. 708 c.p.c. ed i canoni 1676 e 1695 CJC a confronto).
La nuova Instructio Dignitas Connubii

In questo momento storico in cui la crisi della famiglia sembra acuirsi e dilatarsi al di là di confini spazio-temporali ben definiti ed in cui il tradizionale ruolo da essa ricoperto vacilla e si disgrega sempre più progressivamente, occorrerebbe che l’operatore del diritto si interrogasse con grande attenzione sui rimedi che la normativa appronta per far fronte a tale urgenza.
Ecco allora che al di là delle indagini socio-culturali (che lasciamo ad altri) sulla genesi e lo sviluppo della disgregazione del nucleo familiare, questo, pur rimanendo la base del tessuto sociale evidenzia sempre di più il suo triste declino. Ci si può però utilmente interrogare sui quei mezzi che il diritto, pur con tutti i suoi limiti, pone a disposizione del tecnico specializzato.

 

E’ interessante quindi affrontare un’analisi comparativa su un istituto che sembra essere ormai demodé, quello del tentativo di conciliazione, attraverso la lettura diversa ma sicuramente interconnessa che dello stesso istituto danno due norme di due apparti giuridici diversi: il tentativo da esperirsi da parte del Presidente del Tribunale Civile nei casi di separazione e cessazione degli effetti civili del matrimonio e lo stesso tentativo che durante il processo canonico deve essere effettuato nel suo svolgimento.
Come vedremo al di là di tempi e modi, in parte diversi e in parte affini, rimane un unico grande, forse ambizioso tentativo, quello di salvare la coppia in crisi. Forse però con un istituto che è da ripensare.



L’articolo 708 c.p.c.
L’ordinamento civile italiano riconosce la possibilità di una riconciliazione tra i coniugi, anche se su basi e presupposti diversi rispetto all’ordinamento canonico.
Civilmente la riconciliazione tra i separandi è affidata formalmente soltanto all’obbligatorio tentativo di conciliazione previsto ai sensi dell’articolo 708 c.p.c. 
Infatti, l’intervento di istituti ausiliari, quali i consultori o altri servizi sociali, è del tutto insufficiente ad affrontare seriamente un tentativo per la riconciliazione dei coniugi, tanto da auspicare nuove ed alternative forme di composizione dei conflitti.
Più concretamente la riconciliazione si viene a realizzare, ed in casi comunque sporadici, spontaneamente, grazie all’iniziativa personale dei coniugi o alla mediazione degli avvocati degli stessi, dato che lo stato di separazione non dovrebbe ipoteticamente evolvere per forza di cose verso lo scioglimento del matrimonio e la conseguente disgregazione della famiglia. I coniugi potrebbero di comune accordo far cessare lo spatium separandi  ripristinando la convivenza coniugale nella sua totalità, anche senza l’intervento del giudice.
Aspetto formale
Da un punto di vista formale e processuale “la lite giudiziaria nella quale prendono forma le cause di separazione tra coniugi, ha inizio con ricorso a seguito del quale viene fissata un’udienza preliminare davanti al Presidente. Questa udienza ha due scopi fondamentali: far esperire il tentativo di bonario accomodamento per indurre i coniugi a riconciliarsi o quanto meno di effettuare una separazione consensuale che eviti la lite giudiziaria; far assumere i provvedimenti provvisori ed urgenti se il tentativo di bonario accomodamento fallisce ed il Presidente debba rimettere le parti davanti al giudice istruttore per l’inizio della causa vera e propria”. 
E’ comunque controverso in dottrina il concetto di conciliazione. Una parte, che fa capo al CARNELUTTI , ritiene che l’attività del Presidente del Tribunale debba essere interpretata come tentativo di far riprendere ai coniugi la convivenza; un’altra parte ritiene invece che il tentativo del Presidente debba essere finalizzato ad ottenere dall’attore una rinuncia all’azione. 
Lo scopo di questa udienza, così come pensato e voluto dal Legislatore, era pertanto assolutamente legittimo, visto che in dottrina era considerato un valido aiuto per il magistrato nel cercare di ricomporre le insorgende liti tra i coniugi  e la cui ratio doveva “essere ancora una volta ritrovata nel principio del favor matrimonii e nell’intento del legislatore di ostacolare il più possibile l’azione di separazione”. 
Il DALL’ONGARO, per esempio, riteneva non più tardi del 1987 che, attesa la particolare natura delle cause di separazione, nelle quali “prende ampia parte il sentimento, queste possono esplodere all’improvviso con manifestazioni di rilevante entità o con mene persecutorie che … esigono il sollecito intervento del magistrato nell’interesse dei coniugi e della prole. E’ per questo opportuno che la parte possa essere ascoltata in tempi brevi dal Presidente”. 
Lo stesso Autore si soffermava anche a considerare che i compiti svolti dal Presidente, potrebbero sì essere svolti dall’istruttore della causa ma era preferibile che rimanessero nella competenza presidenziale sia a motivo della maggiore esperienza del Presidente rispetto al giudice istruttore, sia a motivo del tempo che dovrebbe intercorrere tra le due fasi e che in teoria potrebbe consentire “fruttuose mediazioni” e “nuovi suggerimenti conciliativi”. 
Purtroppo la realtà odierna, punto di arrivo di una lenta ed inesorabile deriva processuale e sostanziale nel diritto di famiglia, è ben diversa e il tentativo di conciliazione ha ormai perso la sua originaria funzione, tanto che, di fatto, oggi viene utilizzato solo per l’eventuale conversione della separazione da giudiziale a consensuale e del divorzio da litigioso a congiunto. 
Il tentativo che dovrebbe essere esperito dal Presidente si è ormai reso del tutto superfluo e “la possibilità che all’udienza presidenziale si raggiunga un accordo tra i separandi tale da modificare il titolo della separazione è rimessa attualmente alla sensibilità e all’attenzione di alcuni magistrati. Nella maggioranza dei casi, infatti, il giudice non è in grado di svolgere un ruolo mediativo, incapace perché privo delle necessarie conoscenze interdisciplinari e privo del tempo necessario per poter approfondire gli aspetti del singolo caso, da ciò la inevitabile emanazione di provvedimenti temporanei ed urgenti che si ripetono pedissequamente … senza tener conto della peculiarità dei casi singoli”. 
Il tentativo di conciliazione si è ormai quindi esaurito nella tipica verbalizzazione che ha per oggetto la frase “fallito il tentativo di conciliazione” e questo perché “la conciliazione coinvolgendo unicamente o preponderatamente aspetti emotivi è vicenda intima antitetica all’intervento di un terzo ed in specie del Presidente del Tribunale”. 
Anche la riconciliazione nella fase istruttoria ha poche probabilità di riuscita e se riesce, ciò è dovuto solo al fatto che le parti preferiscono arrivare ad un accordo che, da una parte eviti il prolungarsi per anni della causa e dall’altra eviti loro l’umiliazione del contesto in cui il conflitto dovrebbe svolgersi (udienze fin troppo pubbliche, scarsa attenzione dei magistrati, scarso tempo a disposizione dei coniugi e dei loro difensori). 
La complessità delle relazioni familiari, il contemporaneo coinvolgimento di interessi patrimoniali e morali, “necessita di interventi specializzati e specialistici” , nonché la ricerca di nuove forme di composizione dei conflitti. Ecco perché, forse, occorrerebbe ripensare interamente le norme che regolano il diritto di famiglia, il suo processo e l’autorità giudiziaria competente ad occuparsene.
Ciò che appare evidente è che il procedimento presidenziale è stato ormai trasformato nel tentativo di tutelare le posizioni patrimoniali dei coniugi e la soluzione di questioni delicate come quelle legate alla prole, tralasciando la funzione conciliativa.
Anche l’intervento conciliativo dell’avvocato delle parti è assolutamente insufficiente; infatti, all’avvocato non può essere demandato un compito di conciliazione, se non nell’ambito di una buona volontà o predisposizione del singolo, senza considerare che in assenza di una specifica preparazione in materia, nessun fruttuoso risultato potrà essere raggiunto.
Aspetto sostanziale
Ben più importanti, secondo l’ordinamento civile e da un punto di vista strettamente sostanziale, sono le norme che il codice prevede per definire e disciplinare la riconciliazione e precisamente gli articoli 154 e 157 c.c., il primo titolato proprio Riconciliazione, mentre il secondo Cessazione degli effetti della separazione.
Il codice del 1942, “coerente con il sistema fondato su ipotesi tipiche di colpa, per violazione di specifici doveri derivanti dal matrimonio … qualificava la riconciliazione come fattispecie estintiva del diritto di chiedere la separazione; tanto che sul piano processuale la sua alligazione seguiva il regime delle eccezioni in senso stretto. Essa importava l’abbandono della domanda già proposta e, se intervenuta dopo la sentenza, ne faceva cessare gli effetti”. 
La dottrina e la giurisprudenza desunsero pertanto l’impossibilità di utilizzare i fatti antecedenti alla riconciliazione quale causa petendi di una nuova domanda di separazione (cfr. a tal proposito Cass. Civ. 20.1.1975 n.227 in Giur. It., 1976, I, 1, p.804) ; per la quale erano invece necessari ed “essenziali anche il perdono delle colpe e la cancellazione dello stesso ricordo del passato. E sebbene l’uno e l’altra avessero un senso solamente in funzione del ripristino del consorzio familiare, l’art.157 ipotizzava che la riconciliazione potesse aver luogo sia per espressa dichiarazione dei coniugi, sia per il fatto della coabitazione; e la giurisprudenza aveva avvertito per entrambe le ipotesi l’esigenza di un particolare intento conciliativo (il cosiddetto animus conciliandi)”.  Addirittura si poteva affermare che la mera coabitazione dei coniugi sotto lo stesso tetto fosse inidonea ad integrare la fattispecie dell’estinzione della separazione, se la compresenza dei coniugi fosse da ricondurre a cause diverse dalla volontà di riconciliazione e non importasse la ripresa della vita in comune. 
Con la riforma del 1975 però il panorama legislativo si è completamente modificato e la “riconciliazione non rileva più sotto il profilo di specifici addebiti; ma conserva il suo significato di piena ricostituzione del consorzio coniugale e di superamento della situazione di intollerabilità della prosecuzione della convivenza, che sola giustificherebbe la separazione dei coniugi”. 
Pertanto l’art.154 del codice civile attualmente vigente non qualifica la riconciliazione come fattispecie estintiva della separazione, bensì come un abbandono della domanda presentata perché non più sorretta da un interesse attuale. Il FINOCCHIARO precisa che “i coniugi … in qualsiasi momento possono, di comune accordo, fare cessare gli effetti della sentenza di separazione, senza che sia necessario l’intervento del giudice, con una espressa dichiarazione o con un comportamento non equivoco che sia incompatibile con lo stato di separazione”.  
La nuova norma ha introdotto il concetto del comportamento non equivoco ed incompatibile con lo stato di separazione, adeguandosi all’elaborazione giurisprudenziale più recente, ma così facendo si è posto in dottrina il problema della natura della riconciliazione, risolto comunque dalla stessa nel senso di considerarla un atto avente natura negoziale.  
Anche il secondo comma dell’art.157 va letto nell’ottica della riforma del 1975, per cui potendo la separazione essere pronunciata solo in relazione a fatti e comportamenti sopravvenuti, si esclude che i comportamenti anteriori alla ricostituzione della comunione coniugale possano costituire il fondamento per una pronuncia di addebito. 
Pertanto per riconciliazione fra i coniugi deve intendersi “una situazione di completo ed effettivo ripristino della convivenza, mediante ripresa dei rapporti materiali e spirituali tali da dimostrare una seria e comune volontà di conservazione del rapporto”. 
Anche la giurisprudenza successiva alla riforma ritiene che “non possa ravvisarsi riconciliazione nella ripresa della convivenza avvenuta solo ai fini di sperimentare per un tempo determinato se il consorte si è ravveduto o nell’ipotesi in cui siano intercorsi tra i coniugi rapporti sessuali, senza essere accompagnati da altre manifestazioni di affetto”. 
Da questa breve disamina della riconciliazione per il diritto civile, si può notare che essa va ad incidere su piani totalmente diversi da quelli canonistici e sia la dottrina che la giurisprudenza affrontano questo tema in relazione ad un unico problema: quello della relazione tra riconciliazione, regime patrimoniale della famiglia e tutela dell’eventuale prole, rifuggendo naturalmente qualsiasi aspetto di tipo pastorale ma tralasciando, al contempo, un realistico tentativo di recupero della famiglia in crisi.
I canoni 1676 e 1695 CJC. Nuova Instructio Dignitas Connubii
Di tutt’altra natura, ma con lo stesso dichiarato obiettivo di evitare la disgregazione della famiglia, sono le norma del Codice di Diritto Canonico che affrontano il problema del tentativo di conciliazione processuale.
Pur essendo vero che il matrimonio è sempre lo stesso con gli stessi immutabili problemi, ciò che è venuto forse a mancare è proprio quell’impegno di fondo degli aspiranti al matrimonio a curare il possesso delle qualità fondamentali ed idonee ad impostare e mantenere salda e progressiva la comunità coniugale.
La crisi coniugale, che scoppia a volte improvvisa come un temporale estivo, ma a volte cresce lentamente come una metastasi invasiva che avvelena l’esistenza di chi ha scelto uno stato di vita non scontato ma concordato nei reciproci intenti e non retto da norme fisse ed inamovibili, va prevenuta e/o curata con mezzi adeguati ed impegno costante.
Pertanto, al di là di un’auspicabile conversione di mentalità e stili di vita, che prescindono la vita ‘insieme’, questa crisi deve essere affrontata da lontano con un’educazione familiare e scolastica improntata nuovamente al rispetto dei principi cristiani ed aiutata da una migliore e più efficace preparazione degli sposi al matrimonio. 
Ciò premesso, va ricordato innanzitutto che il principio teologico-pastorale enunciato dal canone 1446 del CJC  (ossia quello di cercare una equa composizione delle liti insorgenti) e centralizzato nel canone 1155, pervade tutto il codice di diritto canonico del 1983.
D’altra parte il concetto per cui “la concordia, la pace e l’amore dovrebbero sempre regnare fra gli uomini, soprattutto fra i cristiani e … le liti dovrebbero scomparire”  risale direttamente all’insegnamento di Cristo. 
Ecco perché il canone 1446 ammonisce tutti i cristiani a far il possibile e l’impossibile affinché si evitino le liti o le stesse si compongano quanto prima, fermo restando il rispetto della giustizia.  Questo invito, indirizzato molto opportunamente a tutti i christifideles, riguarda più specificatamente i “Vescovi, cui è confidata la promozione e la tutela della comunione e vi officii, i giudici, i quali devono cercare occasioni di riconciliazione, non solo <<in limine litis, et etiam quolibet alio momento>> (can.1446 §2)”.  In altre parole la ricerca di una soluzione è finalizzata non solo alla pacifica soluzione della controversia, ma si propone anche come tentativo di riconciliazione per riavvicinare e riportare alla comunione interpersonale le parti in lite.
Questa raccomandazione di comporre i conflitti, attraverso la conciliazione extragiudiziaria viene richiamata anche dai canoni 1676 e 1695  visto che “Il dovere del giudice di tentare una riconciliazione tra le parti incombe … su di lui anche nel processo di nullità matrimoniale e di separazione dei coniugi”. 
E al riguardo il compianto Avv. PIOMELLI, raffinato studioso e valente avvocato rotale, ricordava che già l’art. 65 dell’Istruzione Provvida Mater del 15.08.1936 si occupava del tentativo di riconciliazione , mentre con la nuova codificazione canonica “l’obbligo di tentare la riconciliazione tra i coniugi in tutti i casi dell’accusata nullità del matrimonio, e non solo per il caso si consensus coniugis sufficiat ad illud impedimentum removendum, si è cercato di affidarlo direttamente al giudice … in questo modo … il nuovo canone 1676 sancisce come primo dovere nell’officium iudicum nel processo matrimoniale, e precisamente ancor prima dell’ammissione del libello, ed inoltre ogni qualvolta che si intravede la speranza di buon esito, di mettere in opera tutti i mezzi pastorali per indurre i coniugi a convalidare il matrimonio e a restaurare la vita comune. Lo stesso obbligo spetta al giudice anche nelle cause di separazione, cioè affinché si adoperi ad indurre i coniugi a ripristinare la convivenza coniugale”. 
Il canone 1676, in accordo con tutta la tradizione canonica, “recuerda al juez el deber de realizar el principio de comunión eclesial a través de la reconciliación y la composición pacífica de los litigios entre los fieles”. 
Il testo del canone è il seguente: “Iudex, antequam causam acceptet et quotiescumque spem boni exitus perspicit, pastoralia media adhibeat, ut coniuges, si fieri potest, ad matrimonium forte convalidandum et ad coniugalem convictum restaurandum inducantur”. 
La norma esprime chiaramente “l’interesse del legislatore canonico di evitare il più possibile le cause … imponendo ai giudici l’obbligo di avvalersi di tutti quei mezzi pastorali che ritenga più opportuni onde venga raggiunto un accordo tra le parti”.  E’ quindi la legge ecclesiale ad imporre “al giudice il dovere canonico-pastorale di realizzare il principio di comunione ecclesiale tramite la riconciliazione e la composizione pacifica delle liti tra fedeli”. 
Pertanto l’obbligo solenne “sancito dal prescritto generale del can.1446, vale ancor più per un sacramento così importante. Potrà sembrare una norma un po’ superflua, se si pensa che al momento dell’introduzione del libello, le parti sono spesso irrimediabilmente in crisi. Tuttavia la sacralità del matrimonio e l’ansia della Chiesa per la stabilità dell’istituto familiare, impongono al giudice di tentare ogni possibile mezzo pastorale per la riconciliazione degli sposi … alla riconciliazione si giunge con la convalida se la nullità è certa o dubbia; con il ristabilimento della vita coniugale, se il matrimonio risulta valido”. 
Il giudice assolve questo dovere “tanto antes de la aceptación de la demanda, como durante el curso del proceso, por ejemplo en la sesión para la concordancia del <<dubium>>, o durante el interrogatorio de las partes, o en otro momento que considere adecuado para ese fin”. 
Questa funzione pastorale così rilevante il giudice deve esercitarla personalmente oppure individuando quelle persone (come ad es. i parroci) che possono aiutare i coniugi in crisi ; aiutando la parte in difficoltà a “descubrir de nuevo y a revivir su vocación y misión matrimonial y familiar en el ámbito de la comunidad eclesial (cfr. FC, 69)”. 
Per altro anche il Decreto Generale sul matrimonio canonico della Conferenza Episcopale Italiana del 1990 al n. 56 affida prima di tutto al Parroco il compito di aiutare le coppie in crisi, suggerendo di avvalersi anche della collaborazione dei consultori di ispirazione cristiana, nonché di persone esperte in diritto canonico (nominati per tale ufficio in ogni diocesi)  e che dovrebbero preferibilmente coincidere con la figura dei Patroni Stabili. 
Ciò non toglie che questo compito mediativo dovrebbe essere una prerogativa del Patrono Ecclesiastico il quale “in conformità al ruolo che svolge, particolarmente nell’ambito matrimoniale che assorbe in massima parte l’attività processualistica della Chiesa, ha da essere anzitutto un <<esperto in umanità>>, profondo conoscitore della persona umana, alla luce dei principi fondamentali della antropologia cristiana”. 
Ovviamente in questo genere di cause non è possibile ricorrere alla transazione o al compromesso “pues estas causas afectan también al bien público”. 
In ogni caso è da escludere che il compito di natura pastorale a cui è chiamato il giudice prima di iniziare il processo per la dichiarazione di nullità possa condurlo a “compiere un’indagine preliminare come spesso accade, poiché si tratterebbe di agire in via amministrativa e non giudiziale”. 
Tuttavia, anche se dovrebbe evitarsi un’indagine preliminare, il giudice deve attuare il proprio compito mediativo proprio quando incontra le parti nella presentazione del libello, atteso che “la valutazione del libello, oltre all’accertamento dei presupposti processuali … richiede anche un sommario accertamento sul merito della controversia, così che il rigetto del libello non solo può prevenire le parti da pericolose illusioni, da spese inutili e da reali danni, precludendo loro più eque soluzioni, ma può realmente favorire la riconciliazione tra i coniugi”. 
La norma canonica che affronta il tentativo di riconciliazione nell’ipotesi della separazione è data dal canone 1695 che enuncia: “Iudex, antequam causam acceptet et quotiescumque spem boni exitus perspicit, pastoralia media adhibeat, ut coniuges concilientur et ad coniugalem convictum restaurandum inducantur”. 
Orbene, pur non riconducendosi la separazione “ad un fatto meramente privato ma che modifica lo stato di vita di due coniugi sospendendo quei reciproci diritti e doveri che sintetizzano la convivenza coniugale, intesa come segno della ‘communitas vitae et amoris’, nella quale si sostanzia il vincolo coniugale” , la norma stabilita dal Codice di Diritto canonico è indubbiamente meno applicata del precedente canone 1676.
Ciò perché sono oggettivamente più rare le cause canoniche di separazione dei coniugi, atteso il non riconoscimento civile delle decisioni ecclesiastiche nello stato italiano ed attesa anche la generale tendenza dei fedeli a rivolgersi immediatamente ai giudici civili per la regolamentazione degli aspetti inerenti la prole e gli interessi economici. Infatti, al riguardo, “il diritto civile è reputato indubbiamente più idoneo a dare adeguata regolamentazione ai rapporti economici e agli specifici doveri che si pongono tra i coniugi e nei confronti dei figli in caso di separazione”. 
Ciò non togli che i fedeli possano in qualsiasi momento per motivi di coscienza rivolgersi al Vescovo diocesano o al competente Tribunale diocesano per chiedere la separazione matrimoniale.  Con ciò “la Chiesa non rinuncia – né lo potrebbe – in via definitiva all’esercizio del potere giurisdizionale sopra le suddette cause che – seppur non ‘esclusivo’ – si dispiega in piena e totale autonomia”. 
Ovviamente in questi casi il giudice deve porre in essere tutti gli sforzi opportuni per esortare alla riconciliazione perché in definitiva ciò “davvero riassume ed esalta tutto lo spirito della legislazione canonica in argomento, conformemente del resto all’idea di matrimonio non come luogo solo della rivendicazione dell’appagamento dei propri bisogni, ma come sublimazione della donazione reciproca, della logica dell’oblatività, in contrapposizione con il diritto statuale, ove la separazione … è ormai nel diritto vivente totalmente piegata all’interesse individuale del coniuge a liberarsi di una convivenza divenuta insopportabile. La separazione pare ridursi unicamente … a costituire la base giuridica per proporre la causa del divorzio” , perdendo l’originario carattere sospensivo per tramutarsi in un “elemento propedeutico o preliminare di una fattispecie a formazione successiva che porta alla definitiva dissoluzione del matrimonio”. 
L’art. 65 della Instructio Dignitas Connubii
Una grande novità riscontriamo poi nella nuova Instructio Dignitas Connubii, promulgata il 25.01.2005 dal Pontificio Consiglio per i Testi Legislativi.
In essa, infatti, l’art. 65, dopo aver ribadito il tentativo di conciliazione da parte del giudice, introduce anche un interessante invito ai coniugi di collaborare all’accertamento della verità e un forte monito all’astensione da parte dei coniugi ad ogni rancore e scorrettezza durante il processo matrimoniale.
L’art. 65 infatti recita: “§1. Iudex, antequam causam acceptet et quotiescumque spem boni exitus perspicit, pastoralia media adhibeat, ut coniuges, si fieri potest, ad matrimonium forte convalidandum et ad coniugalem convictum restaurandum inducantur. §2. Quod si hoc fieri nequit, iudex coniuges hortetur ut, omni optato personali postposito, veritatem facientes in caritate, sincere conspirent ad veritatem obiectivam detegendam, prout exigit ipsa natura causae matrimonialis. §3. Si vero iudex animadvertit coniuges animo averso in alterutrum affici, enixe eos hortetur ut inter processum, quavis simultate vitata, comitatem, humanitatem et caritatem ad invicem servent”. 
L’esortazione alla reciproca collaborazione per l’accertamento della verità è molto importante in quanto viene ribadita la natura stessa del processo matrimoniale che non può comunque ridursi ad una battaglia legale da vincere ad ogni costo visto che ha come obiettivo primario la salus animarum. Così come è davvero opportuno l’ammonimento alla correttezza processuale che spesso le parti in causa ‘perdono di vista’ o per precedenti rancori interpersonali o per l’anelito di vittoria che le contraddistingue.
Può quindi concludersi che “la riconciliazione appare … vera res giuridica nell’ordinamento canonico nel cui ambito assume un ruolo preminente nei confronti dello stesso contenzioso giudiziario e, in specie, di quello matrimoniale … [dove] il fine primario della salvaguardia del vincolo coniugale esigono sensibilità teologica e competenza professionale” .
Ecco perché il compianto Giovanni Paolo II, aveva da ultimo riaffermato che, il dovere dei giudici di cercare operosamente una riconciliazione, non deve costituire soltanto una mera formalità o un semplice tentativo, quanto piuttosto una vera mansione pastorale da onorare con il massimo impegno.